L’ennesimo dialogo, l’ennesimo esame di coscienza, l’ennesimo rimpianto.
Atteggiamenti noti, ormai, duri, crudi.
Uno di fronte all’altro, io e te, preferirei che fossi a tu a parlare, ma non lo fai: silenzio.
E il silenzio può avere molti significati e sfumature: mi spieghi il tuo?
Ti guardo negli occhi, quegli occhi meravigliosamente verdi in cui mi sono persa per tanto tempo, e che adesso invece, benché familiari, sono neutri e distanti.
Occhi umidi, i miei, i tuoi.
Le cose vanno chiamate con il loro nome. Questa è una regola pedagogica corretta che, puntualmente, da adulti ci scordiamo, ma non dimentichiamo.
Dunque: le mie “gite fuori porta” sono fughe, nient’altro che fughe, da quegli occhi che mi guardano e che non mi vedono più, ormai da molto tempo.
Ho imparato ad accettarlo questo. Davvero? Mi sono adeguata? Non lo so, in certi momenti mi sembra di farlo, in altri invece mi perdo.
E rieccoci, ri-cominciamo, ri-prendo io l’iniziativa.
– Perché stai con me? – ti chiedo.
– Secondo te, perché? – rispondi con una domanda
Chiudo gli occhi e sospiro, persa anche quest’ occasione: nessuna responsabilità da assumere, nessuna conferma, nemmeno per un soldo d’ipocrisia.
Io non ho timori e ti rispondo sai? Sono veramente stufa!
– Perché, da gran presuntuosa quale sono, penso che tu abbia bisogno di me …. Come ti posso aiutare? –
Inclino la testa, prima a sinistra e poi a destra, ritorno dritta sul mio collo e aspetto.
– È vero hai ragione…. Hai perfettamente ragione – ammetti con difficoltà, le parole costano molto e distogli gli occhi dai miei.
E questo tono dimesso? Eddai! Per piacere!
– Tu hai bisogno di te stesso, non di me…… Tu devi crescere…Cresci! – e, porcamiseria, alzo la voce e nello stesso istante penso che devo riuscire a controllare il mio nervosismo, devo riuscire a mantenermi calma, voglio un dialogo e non una ennesima lite.
– Sì, lo so – continui ad ammettere allungando lo sguardo oltre la mia spalla, verso la finestra – me lo ripeto spesso anch’io, che devo crescere – insisti a guardare fuori, lo so, mi detesti, vorresti scappare e finisci la frase così – Forse non sono ancora un uomo e non lo sarò mai. –
Fermi, immobili in questo acquitrino di parole, uno davanti all’altro, abbiamo smesso di compiere quei gesti quotidiani della vita comune per affrontarci ancora una volta.
In questo penoso dialogo séguito a guardarti impietrita, agganciata al desiderio di affogare in un tuo fiume di parole, per placare questa ansia: sono sempre io che non mi voglio arrendere, sono sempre io a combattere, guerreggio e mi scontro con la tua debolezza, della quale sei riuscito a fare un’arma potentissima.
– Bene, dici di dover crescere, lo sai e lo hai sempre saputo. Fallo! Ma, mi devi scusare, non posso non tacere, mi viene spontaneo chiederti: dove sei stato finora? Dove eri quando ti ho chiamato ed implorato? Devo credere possibile che tu accetti il nostro lasciarsi, con le braccia lungo il corpo e gli occhi incagliati su quei vetri? Non smetterò mai di dirtelo: tu devi guardarti dentro, devi scoprire se e perché vuoi continuare a stare con me – la mia voce è uscita alterata, ma, non so come, ha mantenuto il tono intimo – per quanto riguarda me, beh, nella vita non si hanno certezze, è vero, ma tu, per me, eri l’unica cosa certa. –
E ora piango, mi prendo una pausa, un respiro, senza rabbia, piango, sento le lacrime solitarie che mi bagnano le gote, sperdute anch’esse come me, non sono riuscita a ricacciarle dentro e me le asciugo con il dorso della mano, scoraggiata, anzi, disperata.
– Io volevo sentire che mi desideravi, non solo con le parole, con le false promesse, ma anche con i gesti, con gli sguardi, con le azioni. Che me ne faccio delle illusioni che mi hai regalato?! Io voglio essere certa di non essere solo un’abitudine. Ti devi chiedere se stai con me solo perché hai paura di rimetterti in discussione con il mondo o perché è una scelta dettata dall’ipocrisia del “va tutto bene”. Ti sto implorando: parla per piacere, T’ascolto, sono qui, sto aspettando…-
Mi sono uscite tutte con un fiato violento quelle parole piene di dolore e di una disperazione indicibile e mi rendo conto che ti sto facendo soffrire, vorrei poterti dire che non è così, vorrei rassicurarti come sempre è stato, vorrei, ancora una volta, offrire la mia mano, sempre pronta ad evitarti cadute, per mostrarti amore, attenzione e cura.
Vorrei, in questo momento, una tua reazione, anche un vaffan…, ma: silenzio.
Il silenzio di parole e di gesti mi ha portato via la mente: nel mio cranio c’è un ‘perché’ che rimbomba da anni e che rimbalza da una parte e dall’altra come una pallina da ping-pong. Non c’è né partita persa, né vittoria, c’è il silenzio e quel “perché” che cresce e riempie la mia capoccia, occupando tutto lo spazio disponibile.
Mi sembra di impazzire, non sopporto il tuo mutismo e allora parlo, anzi sussurro:
– Tu hai bisogno di qualcuno che ti aiuti davvero, perché io, probabilmente, non so farlo, non sono stata capace, forse non posso farlo o forse non riesco più…Ho tentato e sono stata così presuntuosa da pensare che l’amore, tutto il mio amore, il nostro amore (ricordi? RICORDI?) potesse bastare per darti quell’aiuto di cui avevi bisogno. Devo pensare che fosse solo mio quell’amore? – continuo a parlare, cercando di riempire il tuo silenzio.
– Ho fallito – è un alito questa frase, sperando nell’animo che finalmente tu mi dica qualcosa, ora.
– Anch’io – mi segui, ma taci di nuovo, le spalle vuote, in piedi contro il muro, le gambe incrociate, con gli occhi poggiati fissamente sui vetri che lasciano entrare un raggio sbieco di un tramonto che sembra celebrare il crollo definitivo.
La mia voce interiore si fa sentire di nuovo: li sbriciolo, quei vetri!!
Un respiro lungo, mi contrlloo e ribadisco. No, non demordo, d’altronde sono o no la pazza?
– Ho fallito e ora sono vuota, senza energie, al buio. Mi hai messo al margine della tua vita e io stessa ho accettato la tua decisione silenziosa, mi hai tolto piano piano tutto ciò che era linfa: i gesti, gli sguardi, le carezze, le tenerezze…. E ti stupisci perché io, ora, sono così distante? Ti stupisci perché sono lontana? Ti stupisci perché fuggo??? –
Il silenzio di ghiaccio è pesantissimo, il mio sterno sta per troncarsi, non riesco più a parlare, non reggo, non respiro, mi lascio andare su una poltrona con la testa fra le mani, ti lascio al tuo tacere.
Volevo un dialogo, ma somiglia di più ad un cupo e avvilente monologo.
E quel che è peggio è che mi sento in colpa per aver preso a piene mani nel tuo cuore, afferrato ed estratto e, alla fine, esibito, il tuo dolore: a te e a me.
L’ultimo sussulto, la mia domanda:
– Perché non hai raschiato in fondo alla tua anima cercando di recuperare quel po’ che c’era rimasto? –
Ancora una volta un “hai ragione” ruzzola ai nostri piedi.
Tenti un abbraccio, ti lascio fare, ma è un abbraccio per entrambi pieno di paura, freddo e io vorrei urlare.
Come far pace con la mamma dopo un rimprovero? Stiamo scherzando? Perdiana! Sono tua moglie!!
Mi abbracci perché ti ho ricordato che ne ho, e ne ho avuto, bisogno? ti sei chiesto se io, ora, ne ho bisogno, se io, ora, lo voglio? E ti stupiresti se ti dicessi di no? Che non lo voglio?
Mi allontano, dalle tue braccia, da te, dai tuoi occhi, da quei vetri, da quel povero tramonto, da quella poltrona e ti mostro le spalle, incurvate, secche e scosse dai singulti. Riuscirai a capire??
Ti giustifico da molto tempo, l’ho sempre fatto, ti compatisco, mi metto nei tuoi panni e soffro, così come ho sempre fatto, con te. Ma io non sono te.
Potrò, e l’ho fatto, consumarmi nella disperata volontà starti accanto, ma questa è la mia volontà, non la tua: io non posso sostituirmi a te. Ed è giusto così.
Tu sei tu, con il tuo animo, il tuo sentire, pensavo che ci fossimo fusi nell’amore, evidentemente non è così. Speravo che tu credessi a questa favola d’amore. Ho sbagliato: mea culpa.
Ti ho sempre rispettato, sono fuggita ma non ti ho mai tradito, ti ho perso e mi sono persa, ho perso il mio equilibrio, il mio ritmo. Probabilmente eri il perno della mia vita e una volta che ti sei allontanato, io sono caduta.
Tu, che ti mostri più debole, ma più forte nell’animo, sei rimasto stabile e in piedi, ma io, quella forte, sono capitolata.
La tua mano dov’era?
Come se dovessimo uscire da un aereo in fiamme, abbiamo vissuto l’istinto di fuga, ognuno in modo diverso.
Ci siamo accalcati all’uscita, cercando di fare il più presto possibile: ci siamo calpestati e siamo ancora qui: tu sembri indifferente, fai finta (o è la verità?) che il fuoco non ti bruci, io, a lottare giorno per giorno, con il fuoco che mi ha consumato ormai.
Lottiamo entrambi per guadagnare l’uscita e, nello stesso tempo, tentiamo di pilotare quest’aereo che perde sempre più quota e forse, come degli eroici comandanti vorremmo morire insieme al mezzo.
Alla fine, come al solito, la stanza di è riempita solo del suono della mia voce.
E tu?
Silenzio…
Ilidia Comparini – La strega vera